Incontro con un artista che traduce concetti complessi e stati d’animo profondi in una concretezza materica che esprime la sua passione per tutto quello che nasce dalla terra.
Parlando del corso di calligrafia seguito mentre non sapeva dove indirizzare il suo talento, Steve Jobs diceva che il disegno di una vita lo si vede soltanto a posteriori, ma lo si costruisce giorno dopo giorno, punto dopo punto, mettendo insieme tutto quello che si è fatto, tutto quello che si è stati. Lo stesso sembra dirci Andrea Cereda, artista che conosciamo da molto tempo, con le sue opere che danno nuova vita a materiali riciclati come lamiera, legno e ferro, e con le parole che ci scambiamo nel suo orto, ordinato e rigoroso, perché anche qui come nei suoi lavori Andrea cerca di dare al rigoglio della natura e delle emozioni un senso logico e formale.
“Quando da piccolo mi chiedevano che cosa avrei voluto fare da grande” inizia a raccontarci “rispondevo il pittore. E infatti ho frequentato quello che allora era l’Istituto Statale d’Arte, alla villa reale di Monza, ma la vita mi ha portato altrove”.
Finiti gli studi, ancora giovanissimo, Andrea ha infatti iniziato a lavorare per un’agenzia di pubblicità come visualizer: era lui che disegnava i lay-out per quelle che poi sarebbero diventate fotografie per campagne come quella che Alitalia aveva dedicato alle divise firmate da Giorgio Armani, la signora in rosso di una vecchia pubblicità Tamoil, una serie infinita di copertine per i cataloghi Francorosso e molto altro ancora.
“Questa esperienza mi ha portato a una maggiore consapevolezza dei meccanismi che stanno dietro alle emozioni, che sono il soggetto principale dei miei lavori artistici. Ma già mentre lavoravo in agenzia
continuavo a coltivare il desiderio di mettere alla prova il mio talento artistico al di fuori dei vincoli costrittivi dei brief”. In questo periodo di convivenza fra l’art director, ormai il suo ruolo in agenzia era cresciuto, e l’artista realizza opere figurative di qualità come il ciclo dedicato ai pugili, iniziato con il ritratto di Muhammad Alì (uno dei suoi personaggi-feticcio) e la serie Ordinary People in cui ritrae gente comune e bambini di colore.
Intanto Andrea proseguiva il suo percorso formativo: corsi di pittura, frequentazioni di artisti hanno quindi completato il suo curriculum fino a trasformarlo, esattamente dieci anni fa, in un artista a tempo pieno, che vive delle sue opere in cui esprime se stesso e la sua storia piegando i materiali che utilizza alle esigenze espressive dei concetti che intende esprimere.
“Sono contento della scelta che ho fatto” prosegue Andrea Cereda “sto riuscendo a esprimere veramente chi sono, senza bisogno di piegare la mia voce alle esigenze del mercato. Ora se qualcuno vuole collaborare con me, succede ancora anche con aziende amiche, lo fa perché vuole il mio linguaggio e crede in quello che faccio”. È successo, per esempio, con le sue sculture di animali che rappresentano il trait d’union fra la figurazione e l’uso delle lamiere riciclate, sempre molto richieste per l’esposizione in eventi aziendali legati alle tematiche di sensibilizzazione sui temi dell’ambiente e del riciclo e del riuso responsabile.
Il fatto che Andrea usi materiali che hanno una storia, però, non deve certo farlo confondere con i molti artisti che si limitano a utilizzarli come ready made: nelle mani di Andrea, il ferro, il legno, la lamiera si piegano all’espressione di concetti complessi e di emozioni profonde. In una delle sue prime serie intitolata “Convivenze”, il legno e il metallo erano faticosamente tenuti insieme da un filo di ferro robusto e da saldature evidenti, a segnare quanto dalla fatica di mantenere un rapporto possa nascere una sorta di dolorosa bellezza.
“Una delle serie cui sono più affezionato è “La parte Sommersa del sé”. Gli scheletri di vecchie barche sospese a mezz’aria sono gli irrisolti che ognuno di noi si porta dentro, che fluttuano in un limbo, in una sorta di calma apparente. Crediamo di averli dimenticati, ma proprio perché mai risolti sono pronti a riemergere per tornare ad agitare le acque del nostro vivere…”.
Un po’ come il suo talento artistico negli anni da pubblicitario, anni che comunque lasciano il segno nella voglia di leggere il tempo e i media, e di raccontarli in modo comprensibile a chi guarda. Senza semplificazioni però, ma con la semplicità delle cose che parlano direttamente al cuore e alla pancia, anche se si comprende che arrivano da un ragionamento complesso.
Il tempo è soggetto di TIMELINE – XX° SECOLO, dove ogni pezzo di lamiera rappresenta un anno di quello che alcun i studiosi hanno definito il secolo breve: l’emozione è forte, per esempio, a guardare i colpi inferti sulla lamiera nell’anno dell’assassinio di Kennedy.
Un concetto questo ripreso nei graficamente bellissimi pezzi di NO SIGNAL, che Andrea Cereda ci racconta così: “Ogni opera di questa serie racconta una comunicazione visuale che si sfalda progressivamente anche per via della sua eccessiva presenza, di cui si stenta a comprendere il senso si trasformano in concretissimi pezzi di lamiera colorata che diventano come pixel o glitch di un’immagine digitale incomprensibile, affidando ad essi un tentativo di ricostruire un senso che vada al di là di quello originale, per noi incomprensibile visto che abbiamo perso i contatti con il passato che lo ha generato.”
Non pensiate, però, a parole dette mentre l’artista è seduto e pensoso, magari con una pipa, su una sedia di design a guardare l’orizzonte: i discorsi più belli con Andrea Cereda si fanno mentre raccoglie insalata, spinaci e cavolo nero dal suo orto per poi darteli da portare a casa. Perché il suo mondo, a prima vista aspro, metallico e spigoloso, nasce da pulsioni di estrema generosità. E chissà, forse è proprio così che l’arte dovrebbe cercare di ricostruire un senso, portando sulla terra i germi di sentimenti e sensibilità che sembrano provenire ormai da altri pianeti, come le meteore che fanno parte di un’altra serie dei suoi lavori, quella intitolata METAMORPHOSIS.